di Gerardo Sinatore
“Nell’ottava di Pasqua di tanti anni fa, alcune galline, razzolando in un pollaio, trovarono un quadro con l’effigie della Vergine del Monte Carmelo…”
Questo quadro venne poi sistemato nello Spogliaturo della Congrega dell’Annunciatella (1479-1503) amministrata da Mastri e Confratelli, che lo custodì e lo venerò dando vita alla costruzione di una chiesetta in suo onore. La chiesetta, è l’attuale Santuario della Madonna del Monte Carmelo detta da allora delle galline. L’anno del ritrovamento del quadro viene attribuito simbolicamente al XVI secolo poiché risulta storicamente che in quel periodo i membri della Congrega erano devoti ad un’immagine dipinta della Madonna del Monte Carmelo del XV/XVI secolo.
Però la Festa, ovvero le celebrazioni religiose insieme alle espressioni profane, ebbero inizio il 26 di aprile del 1609 quando uno storpio, raccolto in preghiera dinanzi alla sacra effigie mariana, riprese a camminare tra i fedeli estasiati e stupiti. Molti pellegrini, tra cui anche la nobile Isabella (non si sa se fosse Isabella d’Aragona Regina di Napoli o Isabella Villamarino Principessa di Salerno anche se si protende per quest’ultima), vennero ad adorare la Vergine raggiunti dalle notizie dei Suoi prodigi.
Per cui, dall’anno 1609 la chiesetta venne gradualmente ampliata ed impreziosita. L’ingresso principale del Santuario venne aperto nel 1656 (originariamente la Congrega aveva un ingresso su Piazza Corpo di Cristo ed uno su Via Lamia); l’altare maggiore e la sua balaustra, entrambi in marmo policromo con tarsie, vennero costruiti nel 1776; il pulpito ligneo con baldacchino, decorato con fregi in foglie d’oro, nell’800 e la cappelluccia con altare a edicola, dedicato alla Madonna delle Galline, in marmo pregiato con la balaustra in ghisa e oro zecchino, nel 1912. Il pezzo più antico, dopo il dipinto della Vergine, è l’acquasantiera in marmo con immagine scolpita della Vergine con Bambino, che reca la data in numeri romani del 1624 (anche se si notano delle correzioni nell’anno). Il dipinto venerato, quello sull’altare maggiore, è un’opera del molisano Giovan Vincenzo Forlì di Forlì del Sannio, documentato a Napoli dal 1592 al 1639, un artista influenzato dal Caravaggio i cui lavori sono sparsi tra Napoli, Capua, Giugliano e Arienzo, ed è una replica della Madonna del Carmine di Napoli, come lo sono la maggior parte di queste Madonne dall’incarnato bruno.
Ritornando al miracolo dello storpio del 1609, mentre i fedeli erano commossi all’interno della Congrega, appena ci fu il passaparola, il popolo raggiunse in massa la chiesetta per festeggiare come aveva sempre fatto durante le feste tradizionali nelle campagne e nei cortili, cioè suonando, cantando e ballando antiche danze che in un remoto passato venivano dedicate ad altre deità primaverili per celebrare il nuovo anno (che allora iniziava con la Primavera) con l’auspicio che la nuova stagione portasse più benedizioni e fecondità; infatti, è in Primavera che sempre gemmano amori, frutti e fiori.
Da allora, la Figliola paganese, ossia la Vergine, la prodigiosa Madonna delle galline, divenne anche la protettrice dell’intera Valle del Sarno e nei giorni della sua celebrazione che iniziavano il venerdì in Albis (la settimana dopo Pasqua), tutti i contadini della Valle raggiungevano Pagani per poi chiudere la Festa il lunedì con danze, canti, ritmi, simboli e rituali. Quei balli, quei canti e quei suoni, erano gli stessi che anche essi praticavano da sempre nelle campagne, sulle ripe del sacro fiume Sarno e sulle loro piccole alture ogni Primavera.
È molto affascinante vedere insieme, in un intreccio naturale, liturgie cattoliche, rappresentazioni religiose di pietà polare e residui di ritualità indigene e allogene come avviene particolarmente a Pagani durante questa Festa; di fatti, molti simboli e riti portano tracce identitarie e residui culturali anche di antichi popoli semiti che abitarono nella Valle del Sarno oltre 3.000 anni fa.
A Pagani, ancora esiste il toponimo Campo d’Ara (Campo dell’altare), ubicato in fondo a via Lamia, dove si venerava la dea semitica Juno Sarrana.
Ed ecco che appena finisce la Pasqua, a Pagani si pensa esclusivamente a questa Festa mobile legata alle costellazioni come la Pasqua, ma di origini precristiane.
Questa Festa è una finestra di libertà dalla routine, di amicizia, di condivisione, di grande devozione ma soprattutto di grande speranza che viene riposta sulla Mamma ‘e tutt’e mamme.
L’amiamo questa Festa, perché si insinua, come cardi spinosi e fiori gialli, dai cigli d’asfalto delle strade, dagli orli delle vecchie case incolte, dai cortili chiassosi e sempre dimenticati, dalle crepe di intonaci avvizziti e dai cumuli di detriti putrescenti dove ogni drappo, steso in onore di questa Grande Mamma, diventa vessillo di identità, di glorificazione della Vita e di libertà.