di Francesco Apicella
Era il 1971, una giovanissima cantante italiana, ancora sconosciuta al grande pubblico, incide nel mese di settembre il suo primo disco, contenente la canzone Mamy blue, un brano musicale composto dall’autore francese Hubert Giraud, con testo italiano scritto dal cantautore Herbert Pagani. La canzone è molto bella e anche la sua voce lo è ma, per una serie di circostanze avverse, il disco non ha successo. Quella ragazza, di soli 17 anni , era la bravissima Ivana Spagna che, in seguito, diventerà una prestigiosa cantautrice di successo, a livello internazionale. Nello stesso anno anche una cantante italo-francese incide lo stesso pezzo e, questa volta, accade il miracolo. Nella sua versione la canzone ottiene un successo travolgente, raggiungendo in molti paesi i primi posti della hit parade. La cantante che, come il re Mida, trasforma tutto in oro col tocco magico delle sue corde vocali, è la grande Dalida, di cui quest’anno ricorre il 35° anniversario della sua morte. Dalida è stata una delle più grandi star del firmamento musicale francese e internazionale, un’icona immortale di stile, classe ed eleganza; una presenza scenica magnetica e carismatica, il cui ricordo, nel cuore dei suoi ammiratori, non conosce l’usura del tempo. Con umiltà e grande rispetto, mi è sembrato doveroso omaggiarla, ripercorrendo,a ritroso, le tappe più importanti della sua luminosa carriera. Dalida, all’anagrafe Iolanda Gigliotti, nasce il 17 gennaio del 1933 a Choubra, un piccolo sobborgo alle porte del Cairo, da genitori italiani di origine calabrese; artisticamente, muove i primi passi nel mondo del cinema egiziano, partecipando a film di serie B, con piccolissime parti. Nel 1954, dopo essere stata eletta Miss Egitto, col cuore pieno di sogni e di aspettative e armata di tanto coraggio, Dalida lascia l’Egitto per sempre e si trasferisce a Parigi, decisa a intraprendere la tanto sognata carriera cinematografica. Da lì, dopo tanti provini andati a monte e tante delusioni, grazie al suo indiscutibile talento, alla sua rigorosa professionalità e a un pizzico di fortuna, inizia la sua carriera artistica come cantante…una carriera continuamente in ascesa che, negli anni a venire, la consacrerà come una grande regina del panorama musicale mondiale. Dalla fine degli anni 50’ ai primi anni 80’ la sua vita è un susseguirsi di spostamenti che la porteranno dalla gloria dell’Olympia di Parigi, il più famoso music-hall d’Europa, in tutti i paesi del Mediterraneo, dalla Grecia al Medio Oriente, con lunghe e frequenti tappe in Italia.
In Italia, la patria dei suoi genitori, la terra che le rimarrà per sempre nel cuore, Dalida approda nel 1959, cantando la struggente canzone “Gli zingari” (”Les gitans”) in una puntata del Musichiere, lo show televisivo del sabato sera condotto dal compianto Mario Riva. Tra lei e gli italiani è subito amore…un amore totale, sviscerato, che nel 1968 le regala la vittoria a Partitissima, con la canzone “Dan, dan, dan”, sorpassando all’ultimo momento, sul filo di lana, Claudio Villa e Rita Pavone, suoi rivali nella corsa alla vittoria. Però, ogni medaglia ha il suo rovescio e in Italia Dalida, oltre a un grande successo, incontra anche uno dei dolori più laceranti della sua vita: il suicidio inaspettato del cantautore Luigi Tenco, a cui era legata da un’intensa storia d’amore e da un promettente sodalizio artistico, il cui primo (e ultimo!) frutto sarà l’esecuzione al festival di Sanremo del 1967 della stessa canzone (come allora si usava); quella “Ciao, amore, ciao”, scritta proprio da Luigi, che Dalida continuerà a cantare nei suoi concerti ma che, come lei stessa ha detto in un’intervista, non può assolutamente ascoltare perché il ricordo e l’emozione di quel momento sono così intensi che, inevitabilmente, la fanno scoppiare a piangere. In seguito la stampa scandalistica sfrutterà fino alla nausea questa parentesi altamente drammatica della sua vita, senza alcun riguardo e rispetto, insinuando perfino l’ipotesi che la sua presenza in scena porti “sfiga”; il veleno corrosivo di questa insidiosa maldicenza fa subito breccia nel mondo superstizioso dello spettacolo e Dalida sarà, a poco a poco, allontanata dalla televisione e dalla grande maggioranza dei suoi colleghi. Questo ostracismo artistico, aggiunto al dolore per la perdita del suo amore e alla solitudine spietata che, da tempo, ha fatto il nido nel suo cuore, salvo qualche rara apparizione televisiva, la allontana definitivamente dall’Italia. Provata da tanti dolori e amarezze, Dalida trova nella canzone il modo più profondo e autentico per raccontarsi . Nelle sue canzoni, piene di riferimenti espliciti e diretti alla sua vita, (“Bravo”, “Téléphonez-moi”, “Mourir sur scene”, “Je suis malade “Fini, la commedie”, “Il venait d’avoir 18 ans” e tante altre ancora) ci sono sempre la sua storia e il suo dolore, anche se lei non ha mai scritto né la musica né i testi di quello che canta. Quello che viene fuori è un racconto autobiografico, una specie di diario intimo vissuto direttamente con il pubblico, nel quale mette a nudo, senza veli e senza pudori, tutto il tormento della sua anima…un’anima in bianco e nero, assetata d’amore, di luce e di colori….un’anima lacerata dalla vita, in cui ogni esperienza dolorosa ha inciso, a fuoco, la sua impronta, come un tatuaggio indelebile. Nata artisticamente come attrice, Dalida interpreta le sue canzoni in maniera drammatica e teatrale, privilegiando il concerto dal vivo a quello televisivo per avere sempre una comunicazione diretta col pubblico e realizzare così, ogni volta, quella magica osmosi emotiva, a effetto boomerang, che le dà tanta carica sulla scena e manda gli spettatori in delirio. E il suo pubblico, sempre attento e fedele, percepisce tutto il pathos e la sincerità di quel messaggio,di quel tormento che scaturisce dal profondo della sua anima, che le invade la mente e si impossessa, sulla scena, della sua gestualità. Alla fine di ogni esibizione Dalida, di profilo, rivolge il viso verso l’alto e resta immobile come una ieratica divinità egizia…con la mano sinistra stringe l’asta del microfono e si porta, chiusa a pugno, la destra sul cuore, quasi a voler trattenere il più a lungo possibile il calore e l’affetto di cui il suo pubblico la nutre, da sempre, con grande generosità; un amore inossidabile di cui lei ha un bisogno quasi vitale…poi, di colpo, si inginocchia per ringraziare il pubblico e, a capo chino, tocca quasi il palco con la cascata fluente e luminosa dei suoi capelli. La sua passionalità, la sua felina istintività e il suo morboso bisogno di successo, spesso, le hanno fatto fare delle scelte professionali un po’ discutibili sul piano qualitativo, malviste da certa critica e da certa “intellighenzia” pseudo culturale che l’hanno sempre snobbata e considerata un’artista kitsch e populista. A dispetto di queste malevoli e dissacranti critiche bisogna dire che le “discutibili” scelte artistiche di Dalida e la sua tanta vituperata “smania di successo” non sono mai nate dalla volgarità o dall’avidità ma sono sempre scaturite da un disperato bisogno d’amore e dall’estenuante desiderio di sfuggire alla morsa letale di una solitudine incalzante, che non le lasciava mai tregua.
L’immagine euripidea di una Dalida tragica e sofferta, che i mass media italiani ci hanno trasmesso, senza risparmio e senza posa, è solo un aspetto della sua eclettica e proteiforme personalità artistica; negli show televisivi francesi, che la vedevano padrona assoluta della scena, Dalida non si limitava solo a cantare ma, da vera artista a tutto tondo, ballava, recitava e intratteneva il pubblico con disinvolto savoir faire e grande professionalità; inoltre, non cantava solo quelle canzoni che parlano d’angoscia e di morte, di amori naufragati, di tradimenti e di uomini smarriti per strada ma interpretava anche, e con grande sensibilità, testi di autori impegnati, quali Trenet (“La mer”), Aznavour (“ La mamma”), Ferré (“Avec le temps”) e tanti altri; era drammatica e intensa nelle canzoni che richiedevano un’interpretazione intimamente sofferta ma era anche gioiosa, travolgente e spumeggiante mentre cantava canzoni popolari, quali “Gigi l’amoroso”,”Bambino” (la cover francese di “Guaglione”, grande successo italiano di Renato Carosone e Aurelio Fierro), “Monday, Tuesday” (Laissez moi-dancer) di Toto Cutugno o l’arabeggiante e ammiccante “Salma ya salama”, in francese e in egiziano, grande successo nelle discoteche di tutta Europa e che, ancora oggi, col suo sound irresistibile e incantatore si continua a ballare con lo stesso entusiasmo di allora.
Nel 2016 la regista francese Lisa Azuelos, figlia della cantante Marie Laforet, ha diretto il film “Dalida” e ha affidato il ruolo della protagonista alla bellissima attrice italiana Sveva Alviti che, con la sua interpretazione sensibile e attenta ha fatto rivivere la figura della grande artista in tutta la sua vera dimensione di artista e di donna e in tutto il suo splendore. Dopo 35 anni di assenza il mito di Dalida continua a sopravvivere. inalterato ed “evergreen” nel cuore e nell’immaginario collettivo del suo pubblico…..“Dalì”,come affettuosamente ti chiama l’oceano dei tuoi fan, di cui io, con orgoglio, sono una piccola goccia, sei e sarai per sempre dentro di noi….il nostro cuore è la tua urna.