di Francesco Apicella
“Non ti sporgere dal bordo del pozzo” mi raccomandava nonna Filomena, da piccolo, “e, soprattutto, non guardare giù” “Perché nonna?” “Nel pozzo ci sta Marialonga, una donna vestita di nero, con le mani lunghe, lunghe, che afferra tutti i bambini che si soffermano intorno al pozzo e, poi, guardano giù. Non appena lei li vede, sale su dall’acqua, rapidissima, li prende con le lunghe mani nere e li trascina giù, facendoli affogare”. “Marialonga” mi raccontava la nonna “ era la moglie di Giovanni, un contadino della campagna di Benevento; era secca e lunga, taciturna e vestiva quasi sempre di nero. Una notte un rumore svegliò il marito di soprassalto. Quello che il pover’uomo vide, lo fece rabbrividire. La moglie, in piedi davanti alla finestra prendeva da un vasetto un misterioso unguento, se lo spalmava sul corpo, saliva sul davanzale e, a cavallo di una scopa, si buttava nel vuoto, prendendo il volo. Giovanni rimase profondamente impressionato da quello che aveva visto e, il giorno dopo, senza dire niente alla moglie, si recò in paese dalla sua anziana madre e le raccontò l’accaduto. “Mammà, ma che m’aggio spusato ‘a Befana? L’aggio vista cu’ l’uocchie mieie ca’ vulava ‘ncopp’a ‘na scopa” chiese alla madre “Ma quale Befana vai truvanne, Giuvà!” gli rispose la mamma allarmata “Chella tua moglie è ‘na strega! Statte accuorte!” “’Na strega? Uh Maronna mia e c’aggio fa?”. La mamma gli spiegò attentamente quello che doveva fare e la mattina seguente, mentre la moglie raccoglieva la cicoria nei campi, Giovanni, sostituì l’unguento magico della moglie con dello strutto che aveva lo stesso aspetto della sostanza del vasetto. Stranamente, per quanto lui, ogni notte, tenesse d’occhio la moglie, non accadde niente. Fu così per tutta la settimana ma quando venne la notte del sabato, qualcosa accadde. Sua moglie si alzò dal letto, senza far rumore, aprì la finestra, si spogliò, si spalmò il corpo con l’unguento del vasetto, inforcò la scopa e, dopo aver pronunciato, a voce bassa, delle parole incomprensibili, si lanciò dal davanzale per volare in alto. Il volo durò pochi secondi! Si sentì un grido disperato, un tonfo sordo e, poi, un sonoro “spash”,l’inconfondibile rumore che produce qualcosa di pesante quando cade in acqua. Maria si era lanciata nel vuoto ma, al posto di volare, era precipitata di sotto, aveva battuto la testa sul bordo del pozzo, che era sotto la finestra, e vi era caduta dentro, affogando. Da allora il suo spirito inquieto vagava in tutti i pozzi e, appena ne aveva l’occasione, tirava giù tutti i malcapitati che vi si affacciavano, prediligendo, in modo particolare, i bambini. Oltre alla Marialonga o Manolonga, a Benevento c’erano altri due tipi di strega: la Zucculara e la Janara. La Zucculara era una strega zoppa, che infestava il Triggio, la zona del teatro romano, e rincorreva i passanti solitari, facendo un gran baccano con gli zoccoli; il suo aspetto era ignoto perché nessuno aveva mai avuto il coraggio di voltarsi indietro, durante la fuga. La Janara era la strega per eccellenza di Benevento e apparteneva al mondo fantastico, rurale, dei contadini; si diceva che era una donna nata alla mezzanotte della vigilia di Natale e che, poi, era diventata una Janara perché, a causa di un errore del sacerdote officiante, non aveva ricevuto la formula del sacramento della cresima in modo corretto . Secondo alcuni il termine Janara deriverebbe da “Dianara”, nome con cui venivano chiamate le sacerdotesse di Diana, la dea dei boschi, della caccia e della luna, protettrice delle donne e dei parti; una delle divinità più adorate dalla popolazione sannita di Benevento che, a quel tempo, prima della conquista romana, si chiamava Maleventum. La Dianara, secondo la leggenda era una vergine abile nella caccia, schiva e solitaria, una creatura in perfetta sintonia con la natura ed esperta di erbe selvatiche. Aveva anche una profonda conoscenza dell’occulto e delle arti magiche, tutte caratteristiche proprie della figura della Janara. Secondo altri la Janara deriva il suo nome dal termine latino “ianua”, cioè porta, proprio perché era un’insidiatrice delle porte,sotto cui passava nella sua forma incorporea, simile a un alito di vento. Secondo la tradizione per evitare che la Janara entrasse in una casa per tormentare i suoi occupanti e fare danni più o meno gravi, bisognava mettere dietro la porta una scopa di saggina capovolta (la scopa con le setole all’insù era un simbolo di virilità maschile opposto a quello femminile della Janara, che era sterile) o un sacchetto pieno di grani di sale. Poiché la Janara, senza saperlo, soffriva di aritmomania (impulso irresistibile di contare gli oggetti e di eseguire calcoli matematici), prima di entrare doveva contare tutti i fili della scopa o i granelli di sale e per farlo ci voleva tutta la notte, l’alba l’avrebbe sorpresa a contare e lei sarebbe stata costretta a fuggire perché, come i vampiri, non sopportava la luce del sole, suo acerrimo nemico. Se si aveva il sospetto di essere in presenza di una Janara per evitare la sua visita notturna, bisognava pronunciare la frase “Janara, oggi è sabato”, per ricordarle di raggiungere le sue colleghe presso il famigerato Noce di Benevento, dove ogni sabato si radunavano tutte le streghe. Un’altro metodo per scoprire una Janara era quello di recarsi alla Messa della notte di Natale e, dopo la funzione, uscire e aspettare per vedere le ultime donne che uscivano dalla Chiesa. Secondo la credenza popolare queste donne ritardatarie sarebbero le Janare che, in sembianza umana, per una forma di contrappasso mistico religioso, hanno avuto la sfrontatezza di assistere alla funzione più sacra della Cristianità. Il punto debole della Janara erano i capelli e per poterla catturare bisognava afferrarla per i capelli e, alla sua domanda “Che tiene n’mmane?”, rispondere prontamente “fierro e acciaje”, così i suoi capelli si sarebbero trasformati in una massa pesantissima, impedendole di scappare: se, invece, si rispondeva “e capille”, lei, sghignazzando, si sarebbe dileguata, dicendo:” e je me ne sciulie comm’a n’anguilla”(scivolo via come un’anguilla). Per catturare la Janara nel buio della notte, quando era ancora invisibile, bisognava recitare la formula magica “Janara, Janara, ca’ notte me piglie, te piglio po’ vraccio e te tiro ‘e capille”, grazie a questa piccola filastrocca lei era costretta a rendersi visibile e venire così catturata. Per non essere bastonata e riavere la libertà lei prometteva a chi l’aveva catturata di proteggere la sua casa per sette generazioni. Se si avvertiva la sensazione che una Janara era entrata in casa ma non la si vedeva perché, grazie all’unguento magico con cui si era spalmato il corpo, era invisibile, bisognava pronunciare la frase “Janà, viè pe’ sale” (Janara vieni per chiedere il sale) e, l’indomani, lei si sarebbe presentata alla porta in forma umana, chiedendo appunto un bicchiere di sale. La Janara usciva sempre di notte e penetrava nelle stalle per rapire una giumenta e cavalcarla per tutta la notte. E si divertiva a fare tante treccine sulla criniera delle povera bestia, giusto per lasciare ai contadini un segno dispettoso della sua presenza. A volte la giumenta, sfinita dalle incessanti cavalcate notturne, finiva per rimetterci la pelle. Nella vita di ogni giorno, le Janare, pur essendo dotate di poteri magici e occulti,che avevano ottenuto vendendo la loro anima al diavolo, erano delle donne normali, che si confondevano con le altre senza destare sospetti. Una volta che era penetrata in una casa la Janara causava incubi terribili agli occupanti, soprattutto ai giovani; si sedeva sul loro petto, assumendo una forma umana o di animale e provocava una sensazione angosciosa di oppressione e di soffocamento. A volte rapiva e torceva i bambini e se questi, il mattino dopo, avessero manifestato delle improvvise deformazioni fisiche, significava che la Janara li aveva passati attraverso il treppiede su cui si poggiava il calderone nel focolare. “Povero criature, la Janara, stanotte, l’è passato dint’o treppete”, dicevano la mattina i contadini. Per proteggere i bambini dalle Janare le mamme ricorrevano all’abbetiello, composto dalla figurina di un Santo o della Madonna, cucita in un pezzo di stoffa, su cui venivano appuntati piccoli oggetti di metallo ed erbe benedette. E, per avere un effetto protettivo più sicuro, gli mettevano al collo una medaglietta con l’immagine miracolosa di Santo Anastasio (‘a capa e’Sant’Anastasie), potente amuleto anti malocchio La janara di solito era una buona conoscitrice delle erbe medicinali e alimurgiche (commestibili), con cui preparava pozioni, filtri, fatture, incantesimi e lo speciale unguento che, spalmato sul corpo, le permetteva di diventare invisibile, come il vento, e di volare. Per ottenere l’unguento magico la Janara cuoceva, in un vaso di rame, grasso di bambini (“ pinguedo puerorum”) con l’aggiunta di un po’ d’acqua; con la cottura l’acqua evaporava e restava nel vaso una sostanza pastosa a cui lei aggiungeva aconito, foglie di pioppo, solano sonnifero, sangue di pipistrello e olio. Terribile miscuglio!! Secondo la leggenda, le Janare si riunivano, la notte del sabato sotto un grande Noce, situato lungo le sponde del fiume Sabato (la Ripa delle Janare), dove tenevano i loro sabba, che erano convegni notturni in cui veneravano il diavolo sotto forma di cane o caprone, banchettavano e compivano riti magici e orgiastici in suo onore detti “giochi di Diana”. La nonna mi raccontava che un uomo aveva scoperto, per caso, che la moglie era una Janara, glielo aveva detto e le aveva chiesto se poteva andare con lei nel luogo in cui si incontravano tutte le Janare, per poter partecipare anche lui al Sabba. Il sabato seguente, la Janara portò al Sabba anche il marito. Le Janare non usavano il sale per condire le loro pietanze e, mentre banchettavano, il marito, accortosi che il cibo era sciapo, chiese se gli portassero un pò di sale per insaporirlo. Aspetta, aspetta, il sale non arrivava mai! Quando, dopo molto tempo, glielo portarono lui, contento, esclamò:” Finalmente! Sia lodato Gesù Cristo!” Non l’avesse mai detto! Nei Sabba era tassativamente proibito pronunciare il nome di Dio, di Gesù, della Madonna e dei Santi e, nel momento stesso in cui lui pronunciò quelle parole, scomparve tutto intorno a sé e lui si trovò solo e sperduto in aperta campagna, al freddo e al buio. Prima del magico volo che le avrebbe condotte al Noce, a cavallo di una scopa o di un “capro castrato”, che loro cavalcavano all’incontrario, le Janare si spalmavano il corpo con l’unguento stregato da loro stesse preparato e recitavano una formula magica:“‘nguento ‘nguento, mànname a lu nocio ‘e Beneviente, sott’a ll’acqua e sotto ô viento, sotto â ogne maletiempo” Nostro padre, quando io e le mie sorelle eravamo ragazzi, un mattino ci raccontò che, quella notte, aveva dormito malissimo “Sentivo un senso di oppressione al petto, non riuscivo a respirare e mi sono svegliato di soprassalto, spaventato. Sul mio petto c’era un gatto nero accovacciato, che mi guardava”. “Quello non era un gatto” gli disse mia madre, che era di estrazione contadina “A casa non abbiamo gatti neri, e la porta e le finestre erano ben chiuse. Quello non era un gatto, era ‘na Janara!” “Non crederai a queste sciocche superstizioni popolari!” replicò, pronto, mio padre “Non ci credo ma domani comprerò una bella scopa di saggina” “E perché proprio di saggina?” “Perché spazza meglio!”tagliò corto mia madre. Le Janare sapevano preparare anche un ottimo nocino (‘o nucillo) e le noci per prepararlo dovevano essere raccolte rigorosamente nella notte di San Giovanni, che cadeva tra il 23 e il 24 giugno, giorno in cui c’era un grande raduno di streghe sotto il Noce di Benevento. Giuseppe Alberti, creatore del liquore Strega, dedicò la ricetta del suo famoso distillato, composta da circa 70 erbe e rimasta top secret, proprio alle Janare, come pure, da loro, prende il nome il prestigioso premio letterario Strega. Io, per conto mio, sono scettico ma, come si dice,“Non si può mai sapere!”…. mercoledì prossimo al mercato comprerò una scopa di saggina “Perché di saggina?” “Ma perché”, come diceva la mamma,”spazza meglio!”
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